Il momento storico che viviamo, con i fatti della cronaca e gli scenari nuovi che si vanno delineando anche nel mondo della scuola e delle comunità cristiane, ci porta a pensare che il secolo da poco iniziato
sarà il secolo dello straniero per eccellenza. Se, infatti, nelle culture del passato, lo straniero aveva il tratto dell’evento eccezionale e soprattutto traumatico, nel villaggio globale che la tecnica e l’economia vanno instaurando e che noi abitiamo, quella figura diviene sempre più familiare. I tratti che lo identificano, tra l’altro, si presentano ben diversificati perché tra noi non ci sono solo stranieri per turismo, ma soprattutto ci sono gli stranieri per disperazione o, quantomeno, per necessità. Accanto a loro, in una sorta di somiglianza rispetto alla condizione esistenziale dei primi, c’è pure colui che oggi vive questo tempo in una condizione di estraneità nei confronti di se stesso, abitato da un sentimento di spaesamento dell’io nei confronti del suo sé. Quest’ultimo tratto «è la trascrizione psicologica della disidentificazione dell’io con la cultura o con le culture di appartenenza e l’affermazione su di esse della sua alterità e trascendenza»1. Si tratta di quel fenomeno che la postmodernità ci ha recato, espresso nella negazione della ragione universale e nell’esplosione delle ragioni individuali che, mentre potenziano il narcisismo dell’io, creano al contempo sentimenti di grande estraneità. In quel prezioso libretto dal titolo La società dell’incertezza, Bauman pone insieme, quasi specularmente, la condizione degli stranieri oggi con la condizione dell’estraneità dell’uomo. Egli afferma: «Ora gli stranieri sono mal definiti e proteiformi; proprio come l’identità personale che ha fondamenta fragili, instabili, volubili. L’ipséité, quella differenza che separa il sé dal non-io, il “noi” da “loro”, non è più fornita dalla struttura precostituita del mondo, né da un ordine impartito dall’alto. Deve essere costruita e ricostruita, e costruita ancora e ricostruita di nuovo, in entrambe le dimensioni nel medesimo tempo, poiché nessuna può vantare una durata o una “stabilità definita” maggiore dell’altra. Gli stranieri di oggi sono i “prodotti”, ma anche “i mezzi di produzione”, dell’incessante e mai definitivo processo di costruzione dell’identità»2. Di fronte ad un panorama che si va delineando con questi tratti e queste tinte, si fa urgente un nuovo pensiero che accolga la sfida e la novità avanzate dalla figura dello straniero e sia all’altezza di elaborare percorsi nuovi nei quali si invera quel passaggio, tanto auspicato da Daniélou già nel 1951, circa la percezione dello straniero da hostis a hospes, da nemico a ospite3. Potrà essere questa la ragione per la quale il tempo che ci è dato di vivere sia davvero il kairòs per ripensare il rapporto con lo straniero, cogliendone non più la dimensione di minaccia, come storicamente è avvenuto prevalentemente, quanto quella di sacralità, come invece è avvenuto eccezionalmente. Si tratta, dunque, di istituire un pensiero a partire dallo straniero, dove la condizione di estraneità non rappresenta una minaccia da espellere quanto piuttosto una parola da accogliere e che, una volta accolta, genera una nuova etica e un nuovo pensiero al cui centro si erge non più l’io ma l’altro, con il suo volto e la sua storia attraverso cui si riflette una luce che proviene da altrove disegnando una traccia che, per la Scrittura, è proprio quella dell’Assoluto e della Trascendenza nella storia. Che non sia proprio lo straniero, paradossalmente, a prefigurare la futura «identità culturale» di tutti noi? Egli è come la punta avanzata dell’umanità di questo Terzo millennio. Nel volto dello straniero, infatti, si coglie la traccia dell’uomo planetario, globalizzato, che lotta e che cerca di convivere con le «differenze» nella società multietnica, multiculturale e multireligiosa, tenendo ferma la propria identità, ma senza chiudersi in essa4. Il tentativo che vi propongo, dunque, vorrebbe tracciare un sentiero possibile di riflessione sulla figura dello straniero, cifra sintetica dell’alterità, a partire dai dati della Rivelazione. Il mio non sarà un approccio strettamente esegetico, ma non potrò fare a meno di muovermi tra le ricche pagine della Scrittura, individuando alcuni tornanti fondamentali che dischiudono orizzonti estremamente interessanti in rapporto al nostro tema, dal profilo teologico nonché antropologico. Andando alla Bibbia, pertanto, essa ci offre una prospettiva singolare per guardare allo straniero, sfuggendo a quel luogo comune che lo vorrebbe considerare esclusivamente come una minaccia da espellere a favore di uno sguardo positivo, libero dalla paura e ricco di sapienza. Resta vero, tuttavia, che il ricorso alla Scrittura non può essere falsato dal desiderio di trovarvi delle soluzioni ai nostri problemi, magari volendovi leggere risposte già confezionate alle domande odierne. La Bibbia non vuole una lettura puerile delle sue pagine; piuttosto, occorre assumersi la fatica di interpretare le potenti suggestioni che vengono dai suoi racconti come pure dalle sue pagine normative, così da favorire orizzonti di accoglienza, prima di tutto come apertura mentale e poi come ospitalità nei confronti di chi si presenta, appunto, nella sua condizione di straniero. Nella Bibbia lo straniero – come pure il povero, l’orfano, la vedova e il nemico – prima che categorie sociologiche, volte a circoscrivere le diverse identità che compongono l’organismo sociale, per il racconto ebraico-cristiano sono soprattutto categorie teologiche, utilizzate per definire il luogo originario dove Dio si rivela all’uomo e dove costui, al contempo, ridefinisce il reale della propria esistenza nel suo triplice rapporto con il divino, con l’umano e con il mondano. In altri termini, attraverso la figura dello straniero la Bibbia ci dice chi è Dio, l’uomo e la polis nella quale costui vive. Se è vero, infatti, che il luogo in cui Dio accade è l’evento, allora lo straniero ha a che fare con l’accadere di Dio. Colui che attraversa la frontiera, del resto, si rivela, e per questo è figura di Dio stesso. Del resto, il modo in cui Cristo si fa presente non segue altre modalità: «Gesù è straniero per i suoi; e solo un dono di rivelazione può farlo conoscere agli uomini»5. Si faccia attenzione, però, a cogliere questa linea interpretativa nel modo corretto, senza equivocarla: dire che l’estraneità ha un potere rivelante non è un’indicazione immediatamente politica che descriverebbe l’accoglienza indiscriminata dei migranti. Significa, piuttosto, una svolta radicale di paradigma antropologico: laddove l’altro, per la cultura individualistica moderna finisce per rappresentare un’aporia, nell’esperienza cristiana diventa il luogo manifestativo della verità6. Per tale ragione la teologia «ha il compito di parlare dello straniero come persona nell’orizzonte del suo concetto di Dio»7. In questa linea vorrebbe collocarsi il mio intervento.
1 C. Di Sante, Lo straniero nella bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina 2006, p. 14.
2 Z. Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999, p. 66.
3 J. Daniélou, Pour une théologie de l'hospitalité, in VS 85/1951, p. 340.
4 Cf. A. Nanni, Educare alla convivialità. Un progetto formativo per l’uomo planetario, EMI, Bologna 1994, p. 29.
5 L. Cilia, Gesù straniero tra i suoi nel Vangelo di Giovanni, in I. Cardellini (a cura di), Lo «straniero nella Bibbia». Aspetti storici, istituzionali e teologici, «Ricerche storico-bibliche» 1-2 (1996) p. 250.
6 Si veda l’interessante lettura della figura dello straniero/altro presente in P. Gomarasca, I confini dell’altro. Etica dello spazio multiculturale, Vita e Pensiero, Milano 2004, p. 165.
7 R. Bucher, Die Theologie der Fremde. Die theologische Diskurs und sein anderes, in O. Fuchs (a cura di), Die Fremden, Düsseldorf 1988, pp. 312-319; la citazione è a pagina 319.
Vito Mignozzi, Facoltà Teologica Pugliese, da: chiesacattolica.it