La più importante merce (gli inglesi british la chiamano "the commodity" e la considerano da decenni più importante del carbone e del caffè!)
sul mercato, il petrolio, da sempre ha cambiato i rapporti economici e geopolitici del Mondo intero. Ha determinato le economie, ha trasformato i rapporti tra gli Stati. A partire dagli anni Settanta, il prezzo del greggio, che ieri (8/2/16) valeva 29 $ al barile, e le sue disponibilità hanno caratterizzato lo sviluppo tecnologico ed economico delle Nazioni, di tutte le Nazioni, anche del Sud Sudan o del Burkina Fasu. I miglioramenti dell’efficienza dei motori e la ricerca di fonti alternative hanno avuto sempre origine dall’esigenza di ridurre il più possibile la dipendenza delle Nazioni dagli approvvigionamenti di carburante. Che per decine di anni sono state appannaggio di pochi produttori che hanno fatto cartello, cioè hanno programmato e gestito i prezzi tramite la produzione. Gli ultimi due anni invece (dalla fine del 2013), con l’applicazione delle nuove tecniche estrattive del “fracking” e dell’utilizzo degli scisti bituminosi, il mercato, prima blindato, del petrolio ha subito uno scossone micidiale. La parola fracking è arrivata al grande pubblico da quando il regista americano Josh Fox ha realizzato un documentario sulle estrazioni di “gas non convenzionale” negli USA. Nel 2005 (sebbene sia stato inventato nel 1947 e ottimizzato e diffuso su larga scala a partire dal 1997 nel Barnett Shale in Texas), il fracking ha preso definitivamente il sopravvento grazie all’amministrazione americana Bush-Cheney (il "duo-petrolifero che esentò questa pratica dalle leggi di protezione ambientale negli USA, fra cui il Safe Water Drinking Act, e che aprì le terre demaniali degli Stati centrali degli USA ai petrolieri). Fracking è una parola che nasce dalla abbreviazione di “hydraulic fracturing” ("fratturazione idraulica"). Queste due parole racchiudono tutto il concetto del fracking: frantumare la roccia usando fluidi saturi di sostanze chimiche ed iniettati nel sottosuolo ad alta pressione. Il fracking è un modo “non convenzionale” per estrarre gas dalla scisti, una roccia porosa di origine argillosa (shale, in inglese), le cui porosità ospitano in prevalenza metano. Con le tecniche “tradizionali” (trivelle) questo gas non potrebbe essere estratto, visto che il gas è intrappolato in una miriade di pori sotterranei e la classica trivella verticale non arriverebbe ad aprirli tutti. Con il fracking invece, giunti ad una certa profondità, la trivella ed i fluidi di perforazione vengono direzionati orizzontalmente e l’alta pressione innesca una serie di microsismi frantumando la roccia e lasciando sprigionare il gas. Insomma, il fracking è l’ultima invenzione dei petrolieri per spremere dalla pancia della terra più idrocarburi possible. Qualcuno ha ipotizzato che il fracking possa provocare terremoti ma, se teoricamente è vero, le possibilità che capiti un terremoto dalle perforazioni di tipo fracking sono rare. Ci sono invece una moltitudine di altri problemi collegati al fracking e collegati al vivere quotidiano: l’acqua che si beve, l’aria che si respira, il cibo che si mangia: come per quasi tutte le miscele che l’industria petrolifera inietta nel sottosuolo, non è dato sapere esattamente cosa usano. Per aprire e tenere aperte le fessure nel sottosuolo si usano proppanti (miscele iniettate ad alta pressione) che contengono acidi, biocidi, stabilizzatori, inibitori di corrosione, surfattanti, inibitori, agenti per aumentare la viscosità ecc. Di cosa sono fatti? Fra le sostanze possibili presenti nei fluidi da fracking, secondo un rapporto della Camera USA, ci sono: naftalene, benzene, toluene, xylene, etilbenzene, piombo, diesel, formaldehyde, acido solforico, thiourea, cloruro di benzile, acido nitrilotriacetico, acrylamide, ossido di propilene, ossido di etilene, acetaldehyde, Diphtalati. Sono prevalentemente cancerogeni o tossici. Fra le sostanze radioattive invece si elencano vari isotopi di antimonio, cromo, cobalto, iodio, zirconio, potassio, lanthanio, rubidio, scandio, iridio, kripton, zinco, xenon, manganese. The Independent di Londra parla di un altro misterioso componente usato per fare fracking in Texas che ha causato danni ai reni e al fegato di chi vive vicino a questi pozzi e che per ora non si sa cosa sia (è siglato EXP-F0173-11). Ogni pozzo da fracking necessita dai 2-4 milioni di galloni di acqua per poter operare, che si traducono in 7-14 milioni di litri di acqua satura di sostanze chimiche. Le cementificazioni e le impermeabilizzazioni dei pozzi dovrebbero essere a tenuta stagna e quindi perfette ma nella realtà, nessuna attività dell’uomo è esente dal logorio, dall’uso, da difetti, ed è evidente che continuando a pompare miscele inquinanti nel terreno, prima o poi qualcosa deve pure cedere. E migrare. E arrivare, prima o poi, nei rubinetti delle utenze domestiche. Per ora non ci sono dati sicuri e le denunce sono solo giornalistiche mentre mancano studi scientifici di origine universitaria su larga scala. A tutto quiesto si deve aggiungere che, a volte, lo shale del sottosuolo contiene già sostanze radioattive per proprio conto, che madre natura ha nel corso dei millenni separato dal resto, e che stuzzicate dal fracking possono ipoteticamente arrivare in superficie.Il New York Time ha già pubblicato una inchiesta sui livelli di materiale radioattivo nei pozzi artesiani vicino ai pozzi del fracking in Pennsylvania. In alcuni casi si è arrivati a superare di 1500 volte i valori stabiliti per legge. E non è questo un caso isolato. L’inquinamento delle riserve acquifere in seguito ad interventi di fracking è stato verificato anche in Texas, Ohio, Pennsylvania, Colorado, Wyoming, dove innumerevoli sono le famiglie che riportano casi di metano nell’acqua dei rubinetti e casi di acqua nei pozzi artesiani color marroncino e puzzolente, assolutamente inutilizzabile e satura di inquinanti. Nel giugno 2014, il prezzo del petrolio raggiungeva $106 al barile. Esattamente un anno dopo, nel giugno 2015, precipitava a $ 40 e attualmente è addirittura sotto questo livello. Una drammatica discesa che ha messo in difficoltà tutti i produttori di greggio: il cartello dell’Opec, le maggiori compagnie americane e i produttori di shale oil, i cosiddetti frackers. Come mai nel periodo 2008-2014, con una domanda mondiale stagnante, il prezzo si è mantenuto sopra i $100 (con punte fino a $144) e poi all’improvviso è precipitato a $30 (febbraio 2016)? L’industria del fracking ha prodotto i propri investimenti sulla base della previsione che il petrolio sarebbe rimasto in un range tra $70 e i $130 al barile. Sono stati spesi più di $5,000 miliardi per l’esplorazione con metodi fracking in gran parte in Canada e negli Stati Uniti. Ciò ha prodotto una marea di petrolio a disposizione sul mercato, che ha ridotto la quota di mercato dei produttori dell’Opec. L’Arabia Saudita stava perdendo terreno sia rispetto ai concorrenti dell’Opec sia rispetto ai fracker. Oggi, alla base del crollo del prezzo del greggio ci sono ovviamente fattori economici: l’eccesso di offerta della materia prima (l'Iran è rientarto nel mercato dei venditori di petrolio dopo anni di assenza per via delle sanzioni internazionali), il rallentamento dell’economia mondiale e il valore del dollaro. L’impennata della valuta americana è stata speculare alla diminuzione del prezzo del greggio. Poiché il petrolio è quotato in Dollari americani, i Paesi di altre aree monetarie, per acquistarlo, devono prima comprare dollari che rincarando aumentano il prezzo del greggio in termini di euro, yen o rubli. Aumentando il prezzo, la domanda cala, i produttori hanno un surplus e per ridurlo devono tagliare il prezzo. In tempi di ristagno economico dovrebbero pertanto ridurre la produzione. Ma questo non è avvenuto, anzi la produzione del greggio è aumentata e continuerà a aumentare nonostante la recessione. Per quale motivo? Perché l’Arabia Saudita, il più grande produttore di petrolio al mondo, ha elaborato un piano che tende a eliminare i produttori di shale oil e riguadagnare le quote di mercato perdute. A $30 al barile i fracker potrebbero essere spazzati via, ma i sauditi rischiano la bancarotta per mancanza di guadagni. A $80 al barile il prezzo sarebbe stato comodo dal punto di vista economico per i Sauditi ma avrebbe dato troppo spazio di manovra ai fracker. Si è capito che la soluzione ottimale che l'Arabia Saudita ha prospettato è contenuta in un range tra €50 e $60 al barile. Questa è una fascia di prezzo che nel tempo avrebbe eliminato i fracker e insieme non avrebbe gravato troppo sulle finanze arabe. Ciò che rende unica l’Arabia Saudita tra i produttori d’energia, è che in un certo modo riesce a dettare il prezzo di mercato. Essa ha le riserve di petrolio più grandi del mondo e i costi medi della produzione più bassi di tutti. L’Arabia Saudita può fare soldi sulla sua produzione di petrolio anche se il greggio vale $ 20-30 al barile. Adesso ci siamo: potrebbe essere cominciata l'era della fine del fracking o l'epoca della fine dei Sauditi.