Da sempre attenta alla scuola, in prima persona come insegnante e poi con un’intensa attività narrativa, Paola Mastrocola, che pochi giorni fa è stata al Cavanis di Possagno, nel suo saggio
La passione ribelle (Laterza) ha affrontato un perno del sistema educativo: lo studio. Un gesto che sembra essere fuori moda, escluso dal ritmo hi tech della società odierna, anche perché richiede tempo, solitudine, concentrazione e memoria. Per recuperarne il valore servirebbe una rivoluzione di gesti e idee di cui abbiamo parlato con l’autrice. Come mai, come scrive nel suo pamphlet, chi studia è da considerarsi, in senso positivo, «un ribelle»? «Il mondo di oggi è sfrenatamente veloce e competitivo, inoltre richiediamo ai giovani di essere brillanti, estroversi e di vivere una vita digitale iperconnessa, sempre rivolta all’esterno, fuori di sé, chiacchieranti col mondo e mai isolati, solitari e concentrati su se stessi. Siccome studiare vorrebbe dire riprendersi del tempo per riabitare la propria casa interiore, questo comprenderebbe il prendere delle distanze e non sdraiarsi supinamente a quanto il mondo gli chiede. Ribellarsi, allora, significa chiudere un attimo tutti i dispositivi e fare silenzio per rimettersi in contatto con il proprio spirito. Certo, chi studia sta in una stanza: solo, seduto, fermo, tutti aggettivi che oggi non piacciono, che non sono “cool”. Si tratterebbe di ridare valore allo studio smettendola di accarezzare solo la pura esteriorità, l’immagine e il successo». È così difficile ritagliarsi lo spazio e il tempo per farlo? «Ci siamo ritagliati delle vite che vanno contro tutto ciò, quindi è quasi impossibile, perché siamo sempre occupati in giornate impegnatissime o in varie frivolezze. La mia tesi è che questa situazione potrebbe anche non piacere, ma non ci si ribella. Penso a una mamma che ho incontrato che non vorrebbe dare lo smartphone a sua figlia che fa le elementari, ma che non sa se può farlo, perché ce l’hanno tutte le compagne e si sentirebbe esclusa. La rivoluzione parte dal singolo, ma deve passare agli altri, uno dopo l’altro potremmo rifiutarci di compiere certi gesti, come quello di dare un telefono a una bimba di otto anni, ma il problema è il solito: chi inizia? Bisognerebbe che quell’uno fosse così convincente da contagiarne tanti». Come vede il legame tra istruzione e lavoro? «È il messaggio di questi tempi: si studia ma solo per uno scopo preciso e immediato, trovare lavoro. Ridurre lo studio a questo, credo sia svilirlo e rinunciare alla sua vera forza, che è quella di farci diventare persone con una propria identità e uno spirito critico, in grado di pensare. In parallelo nella società va anche un altro messaggio altrettanto inutile: “Ma cosa studi a fare? Tanto non c’è lavoro”. Ecco, iniziamo con il far capire che negli anni della giovinezza ti concedi il lusso di perdere il tuo tempo, ovvero dì impiegarlo, in questioni non immediatamente utili. Un tempo gratuito che non ha un risultato concreto, ma che serve alla nostra parte intellettuale». Ha idea di come riportare al centro della formazione e dello studio la passione? «Vorrei una scuola che fino ai 16 anni non si ponesse il problema dello scopo finale e che pensasse solo ad arricchire lo spirito, la mente e il cuore dei ragazzi attraverso le grandi discipline della nostra cultura, quelle che appaiono inutili e portano fuori dal mondo, come l’arte, la letteratura, certa matematica, ma che fanno conoscere se stessi. Dopo, i ragazzi sceglierebbero verso che campo lavorativo muoversi».