Ebbene sì, mi hanno finalmente dato la possibilità di raccontare qual è stato il mio percorso all'interno dell'Istituto Cavanis Collegio Canova di Possagno; quando immaginavo questo momento
ero convinto che sarei stato capace di catalogare ogni singolo minuto, dal giorno in cui ho varcato il cancello dell'istituto al giorno in cui, seppur solo disciplinarmente, non sono più stato uno studente di questa scuola. Però ora che effettivamente il compito si palesa, vi sono talmente tanti ricordi che raccontano la mia storia che fatico a ordinarli logicamente e inesorabilmente il sovraffollamento crea un vuoto mistico. Perciò trovo giusto partire dal primo ricordo… Era settembre 2010 quando mi fu notificata la seconda bocciatura e nello scontento generale della mia famiglia, di certo non univocamente, presero la decisione di concedermi un’ultima possibilità. "Un ultimatum" lo definiva severamente mio padre, che tra tutti era il meno incline alla soluzione che stavamo prendendo. Ricordo con lucidità il tepore di quel settembre, che non fu così tiepido, simile ad una primavera, come solitamente ci aspettavamo fosse. Poi magari ricordo male e parlo a vanvera ma questo è ciò che la mia mente racconta. Il primo giorno di scuola, durante la prima ora di lezione, entrati nel primo minuto di una nuova vita, già potevi percepire alcuni di quegli elementi che nei tre anni seguenti avrebbero segnato per sempre la mia esistenza: Alessandro, quello che sarebbe diventato uno dei compagni di classe, che con fare spavaldo si fece assicurare sul fatto che fossi stato respinto in passato, quando per me lo potevano assicurare i 20 cm di differenza tra di noi; la messa in tempio, quando padre Francescon parlò per la prima volta dello "spirito cavanis" e prontamente pensai a cosa vi fosse in quel tetro armadio che avevo in camera, in cui avrei dovuto deporre i miei vestiti per l'intero anno, ma ancora non avevo avuto il coraggio di aprire; ricordo la notte, la prima notte, quando senza uno straccio di svago, all'incirca sulle 22.40, ho deciso di cercare quel sonno che non so quando trovai. Fondamentalmente fu questo il primo impatto con il Cavanis e di certo in me era viva la volontà di tornare a casa il prima possibile: bramavo casa come un'infante brama il capezzale materno. Quella prima notte, anche se ancora non lo sapevo, mi aveva segnato per sempre. I primi "veri" giorni di scuola arrivarono in concomitanza con i compiti in classe e non feci in tempo ad aprir bocca che già la prima 'pagellina' quadrimestrale doveva essere consegnata. Così con essa appresi meglio lo sviluppo delle lezioni. Anziché abituarci a una concentrazione "costrittiva", così come amo definirla io, il formato Cavanis propone unità di quarantacinque minuti e due pause, una più corta per staccare la spina e una seconda più lunga che ci permetteva di trovare ristoro. C'è subito da fare una precisazione: come se non bastasse, le bocciature mi portarono a dover entrare a far parte di una nuova tipologia di liceo scientifico, quella coinvolta dalla “legge Gelmini”, che riduceva all'osso le sperimentazioni, proponendo un Liceo Scientifico Tradizionale e uno delle Scienze Applicate; nel totale tradizionalissimo della mia famiglia ovviamente scelsi il primo. Questo cambiamento avvenne per il Cavanis come per ogni scuola italiana statale ma anche in tutte quelle strutture che seguivano gli ordinamenti ministeriali: nel caso del collegio Canova, si può erroneamente definirlo "paritario", ma essendo coscio delle sue maggiori virtù preferisco chiamarlo "pubblico non statale", come amava il professor Gatto, ex rettore della scuola; questa piccola differenza non sembra essere di grande conto ma a mio modesto parere scinde il Cavanis da quella sorta di "diplomifici" che amano onorarsi dell'ordine paritario ma che sostanzialmente offrono biglietti di buona uscita con destinazione Roma. La vita di un convittore vista con gli occhi di uno studente qualsiasi, come possono essere i compagni di classe, i remigini o i maturandi, può sembrare normalmente ordinaria ma così non è; suonata la campanella dell'ultima ora, quando tutti caricavano lo zaino in spalla e nel fomento generale raggiungevano felici e spensierati i mezzi che li avrebbero condotti a casa, a noi sventurati convittori toccava una sorte piuttosto differente; iniziavano così le attività pomeridiane: partendo dalla consegna delle chiavi, trattenute presso l'ufficio di Carlin, sino al suono dell'ultima campanella, potendo perciò finalmente salire ai piani alti dove c'erano gli alloggi, per rinfrescarci, rifare la cartella e, se necessario, cambiarci di vestiti. In seguito, dopo aver salutato padre Carlin con un formale "Buonasera padre" poiché dopo le 12.50 è sera punto, si saliva in mensa per il pranzo. Nella mensa stava Franco detto Frank per gli amici (e non tutti lo erano), il cuoco che da più di trenta anni lavora con la congregazione e che, a mio modesto parere, è una delle figure più importate in questa storia, la mia storia; ci veniva servito il pranzo assieme alle scuole medie e una grande sala si riempiva di ragazzini nel pieno della pubertà e bambini fondamentalmente solo sudati. Ogni pietanza poteva essere presa o no e in ogni caso si passava da un primo piatto sino a una semplice insalata, perciò nessuno rimaneva a bocca asciutta. Dopo il pranzo, per una buona mezz’ora potevamo fare una sorta di ricreazione, più lunga e rilassata, poiché alle 14.05 iniziava lo studio assistito. Obbligatorio per i convittori e un’ottima scelta per gli esterni, lo studio pomeridiano è una delle iniziative più interessanti che il collegio Cavanis offre; venivano messe a disposizione delle aule della scuola dove dei docenti designati (solitamente vi era chi copriva le materie umanistiche, chi quelle scientifiche e chi le lingue) erano a completa disposizione degli studenti. Lo studio durava fino alle 15.30, ora in cui era fatta una pausa di circa venti minuti, per riprendere alle 15.50 e terminare così alle 16.45 tutte le attività pomeridiane della giornata. Infatti, per la maggior parte dell’anno la scuola non si svuotava mai nei pomeriggi; anzi, erano proprio quelli i momenti in cui più mi sentivo a casa: spesso il professor Cunial mi coinvolgeva in una serie di mansioni e/o attività di dubbio genere educativo ma che a ritroso trovo indispensabili per la mia forma mentis, oppure le aule erano gremite da studenti nel pieno delle attività di recupero, come anche i maturandi che regolarmente, anno dopo anno, occupavano (nel senso di “occupare fisicamente e per lungo tempo”) i laboratori d’informatica; forse era tutto questo l’insieme che realmente produceva in me un senso d’appartenenza, imprescindibile, a quel luogo. Che cosa centreranno mai le strambe richieste di un docente con la monopolizzazione dei laboratori d’informatica? Io di certo non posso e non saprei rispondervi; però, nonostante la mancanza, mi sento ancor più appartenere a quel posto, senza doverlo giustificare per forza. Poche righe più sopra ho nominato per la prima volta in questo racconto una figura a me cara, una di quelle persone che nella vita chiamerei un “protagonista”; per questo ora voglio parlare di lui!
Chi era padre Carlin? Lino Carlin era un padre della congregazione Cavanis, di stampo medievale (e mi limito), ma con un cuore grande tanto quanto il tempio canoviano. Egli era il supervisore degli interni a tutti gli effetti. Gli venivano assegnati molti altri incarichi di manovalanza, gestione e amministrazione. Ricordo ad esempio le mensilità che i nostri genitori gli consegnavano e che puntualmente andava in banca a depositare: ho sempre pensato che il bonifico bancario lo infastidisse poiché si notava una certa armonia nel giorno delle rette; la possibilità di prendere la macchina, scendere in paese, ricoprendo un ruolo amministrativo come la gestione del denaro, lo riempiva di gioia. In veste di convittore vedevo il padre in ottica molto differente rispetto al resto dell'istituto: attenzione, perché il Cavanis è una scuola che offre una maggiore quantità d’indirizzi rispetto ai soliti "format" statali, dove un istituto tecnico o professionale non potrebbe mai sopravvivere all'interno della medesima struttura dei licei, e così viceversa; questo perché non vi è esigenza, essendo le scuole pubbliche sature di richieste e perciò inclini alla formazione di tante sezioni, mentre il Cavanis, pur proponendo più corsi, sia liceali che tecnici/professionali, concede una sola sezione per indirizzo. Insomma tutto ciò creava un clima unico e particolare all'interno dell'istituto; certe volte io stesso mi chiedevo se fossi solo un'ingenua comparsa all'interno di un film holliwoodiano di serie B: dove tutto sembrava candido e incontaminato e allo stesso tempo così ingenuamente americano. Ma anche questo è un mio parere, perciò non mi spingo oltre.
Padre Carlin era un educatore nell'esatta definizione della parola; un padre fortemente cattolico, con una particolare devozione alla Vergine Maria, ma allo stesso tempo trapelava laicità da ogni poro, con i suoi insegnamenti e le sue regole, a fine unicamente educativo. Nel periodo di Quaresima era solito concederci la possibilità di pregare assieme nel dopocena; attenzione, si parla di concessione, non di costrizione, poiché tra le due passano oceani di mezzo: infatti, Carlin introduceva l'argomento della resurrezione di Cristo e del valore della madre di Gesù e questo naturalmente portava a una serie di preghiere che il padre proponeva, concedendo a chiunque non fosse interessato di rimanere esente da questa “ritualità”. C'era perciò chi taceva a mani giunge e chi in modo speculare pronunciava "parole di chiesa": beh, che dire, in tre anni non ho mai taciuto in questo momento, stringendomi al padre e accompagnandolo nella preghiera! Devozione? Religiosità? Provocazione? Non credo, anzi, ora non lo credo più, perché ora so con certezza che si trattava di semplice rispetto. E il rispetto sfocia facilmente nella fede, ve lo assicuro! Padre Carlin non si limitava a questo. Lino Carlin era quell’uomo che per nulla al mondo avrebbe mancato una messa mattutina, nella cappella adiacente alla mensa, una delle più esili e confuse tra i tanti luoghi di culto all’interno delle proprietà Cavanis. Questo non perché percepisse la messa come una funzione necessaria nell’arco di una giornata ma credo solo perché il padre sia stato sempre ammaliato dalla concezione di preghiera e riflessione con Cristo e attraverso Cristo. Insomma la messa era per lui più una fonte di gratificazione, una costante nelle sue ripetitive giornate, che solo noi interni potevamo colmargli di gioie e di sofferenze, solitamente in base al nostro comportamento. Se qualcuno mai dovesse chiedermi qual è stato il momento più bello che abbia vissuto con padre Carlin io racconterei questo: il sabato era per noi convittori una sorta di miraggio che ci si palesava il lunedì mattina, poiché era il giorno in cui la scuola finiva e si poteva tornare a casa, nelle nostre rispettive e VERE case. Quel sabato però, già nelle prime ore della mattina, il padre mi fece sapere che mi sarei dovuto fermare a studiare nel suo ufficio fino alle cinque: fin qui niente di particolare, anche perché era una punizione normale che il padre, in casi estremi, applicava. Quello che però non tornava ai miei giovali “conti in tasca” era il vero motivo della mia punizione. Ovviamente non mi fu nascosto l’arcano ma fu tanto banale che tuttora non lo ricordo. Quel pomeriggio però capii tante cose della mia vita e della vita stessa: capii come una persona poteva provare talmente tanto bene, incondizionatamente, che il dono di un padre veniva meno; che gli atteggiamenti bruschi e distaccati sono assunti per lo più da chi vuole il tuo bene; che non esistono veri “tabù”, piuttosto esistono dei modi e dei tempi per affrontare le cose, e non sempre sono quelli giusti. Gran parte della punizione la passai a disegnare improbabili figure geometriche sul quaderno, nel disperato tentativo d’addolcire una delle pillole più amare della settimana, ma in quei 35-40 minuti massimi che passai a parlare con il padre, presi atto della sottile differenza che scinde un genitore da quello che io, ragazzino di diciassette anni, decisi fosse per sempre il mio educatore. “E’ una responsabilità, non un gioco”, “hai fatto la tua scelta, ora rispettala”; ci capivamo noi, anche se sapevo di appartenere a un’altra vita, un’altra era, un modo differente di vedere il mondo. Non ricordo l’ultima volta che l’ho visto e ancora meno ricordo l’ultima cosa di cui abbiamo parlato, forse l’ultimo saluto che ci siamo scambiati, però tanto basta, perché io ora mi ricordo di lui, parlo di lui e nel modo più rispettoso che conosco, in un qualche senso, diffondo anche il suo verbo. Dopo quel pomeriggio niente più era normale. Mancavano più di 5 mesi alla fine della scuola e le perplessità erano tante; il tempo in quel posto magico era giunto al termine e lui lo sapeva con largo anticipo, anche rispetto ai cari professori che tutto potevano, tranne che essere lui. Ho continuato a lavorare, mettendoci impegno e dedizione, spesso sbagliando e ogni tanto anche volontariamente. In quella scuola ho finito l’anno e quello successivo sarei andato a guadagnarmi la maturità, quella di carta, quella che “conta”, in un altro posto, anche se a mio parere fu il padre a regalarmela quel pomeriggio, la maturità di credere nella cosa più importante che abbiamo a disposizione in questa e in quella vita: l’amore. Ovviamente di storie da raccontare ce ne sono tante e la mia stessa storia ne contiene delle altre, però non tutto va detto e spesso le cose andrebbero conservate con più rispetto di quanto non si dia a vedere. Così finii l’anno in collegio, continuando a lottare giorno dopo giorno, compito dopo compito, una sfida alla volta, un tassello alla volta. Di lì in poi non fu che un continuo tentativo di scrollarmi di dosso quei tre anni precedenti; all’inizio pensavo che mi bastasse andare avanti, guardare a capo chino i passi che avrei dovuto percorrere lungo il mio cammino, ma presto capii che non bastava. Tornavo spesso a scuola, dove trovavo sempre meno ricordi e sempre più sofferenza. La mia idea era quella che uno strappo netto fosse più adeguato alla mia “vita nuova”, che abbandonare fosse “meglio” di finire, che non guardare fosse giusto, oppure solo “meglio” di vedere. Insomma non sono convinto fino in fondo che le scelte che ho fatto, il percorso che ho preso, potesse essere “giusto”, però so che per come sono fatto, rifarei gli stessi errori e prenderei ancora le stesse decisioni, questa volta conscio però che ai sentimenti non si comanda e che la fine la può varcare solo il nostro cuore. La mia esperienza Cavanis termina qui, al culmine della mia maturazione, nell’estate del 2013. Quel settembre sarei tornato a casa dopo tre anni passati tra quei muri che tanto ho odiato ma che in quel momento mai mi furono così cari; mi ritrovai quindi a girarmi, dando le spalle alla mia giovinezza, con il peso a valle di chi sta per buttarsi nuovamente dentro la mischia, cosciente di quello che mi lasciavo alle spalle e di quelle che alle mie spalle ci stava ma che avrei gelosamente portato con me, costudendolo nelle profondità della mia anima, dove le lacrime rigano i volti e i volti tendono i sorrisi, dove tutto è segreto e un ricordo potrà rivivere intensamente, per sempre. Nicola Schenardi, ex allievo del Cavanis di Possagno